Alla
fine il centrodestra l’ha spuntata:
sulla RAI
vince la tattica del rinvio
E
le minacce aventiniane del segretario Bersani, di non partecipare al
rinnovo del Cda potrebbero rivelarsi un buco nell’acqua. L’ultima
volta che i rappresentanti della sinistra lasciarono le poltrone di
Viale Mazzini, accadde che i superstiti del centrodestra vi rimasero
seduti per nove mesi. E quando finalmente gli ultimi “giapponesi”
fecero le valige, il nuovo consiglio di amministrazione bruciò in
sette giorni la prestigiosa candidatura di Paolo Mieli.
Non
che la storia del 2003 debba ripetersi, né che i nomi circolati in
queste ore per la presidenza RAI debbano subire oggi l’ingrata
sorte toccata allora a Mieli. Tuttavia il braccio di ferro tra
Bersani che evoca l’Aventino, e Alfano che replica l’eterno
Cencelli televisivo, sembra alludere a scenari già visti.
Lo
stallo della trattativa sul cambiamento delle regole RAI è un
distillato purissimo dell’acuto degrado della politica italiana.
Si può fare una riforma epocale delle pensioni in venti giorni, e
cambiare il welfare del 900, lasciando la sinistra a leccarsi le
ferite, ma guai a toccare i fili della televisione. I leader
politici twittano,
giocano su face book, ma la macchina impastatrice del consenso resta
il piccolo schermo, l’ultima “roccaforte” per le nomenklature
di destra e di sinistra. Perché senza l’ossessivo presenzialismo
nelle case degli italiani, di loro, si potrebbero perdere anche le
tracce. Poiché modificare questo flusso di corrente con l’opinione
pubblica significa terremotare il “senso comune” che spinge il
cittadino a esprimersi al momento del voto. Perché basta chiedersi
come sarebbe il paese se cambiasse davvero la sua rappresentazione,
se ogni giorno la televisione facesse vedere e ascoltare quello che
da troppi anni nasconde e silenzia.
La
stanca mimica del battibecco da talk-show, nasconde
l’assenza
di una informazione libera
e
indipendente.
Il conduttore che non scrive un libro, se a presentarlo non ha con
sé ministri e segretari di partito, occulta l’emarginazione di
giornalisti senza padrini. Noi siamo ancora il paese che ha bisogno
del medioevale benestare d’Oltretevere per compilare gli
organigrammi del servizio pubblico.
Ora,
l’apriti sesamo del cambiamento,
sembra
la cancellazione dell’attuale legge (come l’impetuoso vento
rinnovatore suggerisce al segretario del Pd). Certo lo dice il nome
del ministro che l’ha battezzata, peggio
è difficile. Ma
prima della Gasparri la Rai non viveva l’età dell’oro. Tutti i
servizi pubblici europei hanno nomine politiche senza per questo
esserne la dependance.
La gloriosa Bbc, ai tempi di Tony Blair era governata da un
laburista di primo piano: Eppure nulla gli impedì di condurre una
dura campagna contro la guerra irachena di Downing street, pagandone
poi il prezzo. Ve lo immaginate voi un presidente o un direttore di
tg. che va contro a chi lo ha gentilmente lottizzato ? Monti abbozza
la figura di un direttore generale commissario, ma
non sposta la “montagna”.
La
Rai resta il “supergoverno” dove placare le correnti e
stabilizzare le traballanti leadership.
Norma Rangeri da il Manifesto
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