Quello
della giustizia è un tema ampio, spesso al centro del dibattito
politico nazionale, ma di non facile presa. Uno degli aspetti
problematici che lo caratterizza è certamente quello della
situazione carceraria nel suo complesso e delle possibilità, offerte
o meno, a chi “ha sbagliato”, di intraprendere processi di
cambiamento e di riconciliazione sociale. Per non parlare poi dei
tempi della carcerazione preventiva. Come possiamo dirci e sentirci,
noi tutti, civili, nel mentre alcune persone sono in carcere, magari
da diverso tempo, ancora in attesa di giudizio, ancora in attesa che
si avvii l'iter giudicante. Al di là della loro colpevolezza o
innocenza, il processo è un diritto.
Un
diritto nella sua rapidità, nella sua accuratezza e nei suoi
approfondimenti. È un diritto anche per le vittime, per chi ha
subito dei torti. Il diritto ad essere riconosciuti anche nelle
proprie sofferenze.
Mi
preme sviluppare alcune considerazioni che, partendo da queste
questioni di fondo, ne amplifichino le riflessioni andando al di là
dei consueti limiti argomentativi che solitamente ci vengono
“offerti” riguardo al tema.
La
“giustizia” presenta certamente dei problemi di natura
organizzativa, di struttura, di formazione, di inadeguatezze
normative. Presenta problemi di rapidità e di accuratezza.
Ma
in quale ambientazione avviene tutto questo?
Una
ambientazione nella quale da anni è forte, per essere eufemistici,
l'impressione che si volessero fare delle leggi ad-personam, magari
attaccando la magistratura; accusandola, genericamente ma
pesantemente, di assumere, in qualche modo, un ruolo politico; per
converso, cercando di indirizzare eventuali riforme incanalandone in
un'ottica che, al contrario, sembra essere finalizzata a destituirne
la autonomia e a ricondurla sotto il controllo o l'indirizzo
politico.
Una
ambientazione, quindi, nella quale è stato forte il messaggio
che ci si volesse difendere al di fuori dei processi, magari
attraverso l'uso del proprio potere politico o di quello mediatico.
Al di là dei giudizi di
innocenza o colpevolezza che non spetta a noi dare!
Nel contesto di un presunto
garantismo, contemporaneamente venivano sviluppate dinamiche del
sospetto, del giudizio preventivo e sommario che magari si
traducevano in azioni legislative; basti pensare alle normative
riguardanti il reato di clandestinità o a quelle azioni anche
amministrativo-locali che producono discriminazioni della persona
basandosi esclusivamente su condizioni esistenziali.
Insomma, anche qui al di fuori
di qualsiasi forma di dinamiche della partecipazione e di
condivisione della propria situazione. Una costante tendenza ad
eludere, a travalicare, ma soprattutto a trasformare gli attuali
“argini costituzionali”. Da parte di chi, dichiarandosi
perseguitato, ha esercitato anche su queste basi, un consistente
potere politico e mediatico. E, per converso, in altri ambiti e
contesti, nello sviluppo di una concezione di giustizia sommaria che
esprime una cultura per cui preventivamente il diverso, lo straniero,
l'irregolare, quello che non ha stabilità, è da guardare con
sospetto, attraverso un giudizio già dato, già determinato che
“trasforma” un essere umano in una persona che, non si sa come,
con la semplice presenza territoriale, in qualche modo, lede beni o
persone o interessi della Repubblica. Un ledere per l'appunto
talmente indefinito da assumere fisionomie culturali molto forti.
Torniamo alla situazione
carceraria e alla considerazione che spetta alle vittime di reati, di
abusi.
Forse dovremmo immaginare una
giustizia più capace di non separare irrimediabilmente le varie
figure.
Capace di studiare e prevedere
interventi riparativi capaci di azioni che vadano oltre la semplice
carcerazione; che dovrebbero cercare di “coltivare” il desiderio
di riassumere una valenza di rispetto etico nella società; avendo
per questo ben presente e ben nel cuore la sofferenza inferta ed
anche subita.
Per questo, a mio avviso, la
dimensione della giustizia non deve semplicemente riassumersi e
chiudersi in un'aula di tribunale, per quanto questo, ovviamente, ne
sia spesso un passaggio essenziale ed inevitabile. Dovrebbe farsi
spazio ed essere presente, al contrario, nel nostro intimo di
cittadini, come questione propria e di civiltà. Di rispetto delle
diverse sensibilità in gioco, delle speranze di riconoscimento e di
riabilitazione e riparazione ed anche di potersi impegnare per poter
essere diversi che possono crescere ed essere presenti in tante
persone. Barlumi di speranza che non possiamo soffocare attraverso
ambientazioni di vita carceraria inaccettabili se non bestiali e
oltre ogni forma di sopportazione; non possiamo soffocare barlumi di
speranza attraverso politiche dell'abbandono a sé stessi o a culture
che favoriscono la diffidenza e l'esclusione piuttosto che l'impegno
civile e la voglia di contribuire responsabilmente a una idea diversa
di società.
Non escludendo per questo il
tema essenziale della sicurezza personale o le questioni che i flussi
migratori ci pongono. Nessuno nasconde che la sicurezza di ogni
cittadino sia un diritto e che i flussi migratori vadano affrontati
con responsabilità anche per le difficoltà che inevitabilmente ne
possono nascere. Si tratta di scegliere come affrontare tali
questioni; cercando di coltivare e far permanere le nostre azioni e
le nostre intenzioni nell'alveo del rispetto umano, dei diritti,
dell'accoglienza e dell'impegno in una società solidale e che, nella
solidarietà e nella responsabilità, che tanto caratterizza lo
sfondo complessivo della nostra costituzione, si identifica.
L'assetto complessivo della nostra costituzione in realtà trasmette
l'idea di un potere giudiziario separato ed autonomo da altri poteri.
Immaginarlo diversamente intacca inevitabilmente quell'idea dei
diritti delle diversità e delle libertà che una costituzione
costantemente dimenticata e disattesa emana in ogni sua parte.
Un'idea diversa di sicurezza,
quindi.
La sicurezza che è data dal
“sentirsi parte” e dall'impegno e dall'attenzione che deve
crescere in ognuno di noi per il “bene comune” rappresentato
dalla dignità di chi ci sta vicino e dalla dignità e nobiltà dei
nostri pensieri più intimi.
Tutte queste riflessioni
dovremmo riuscire a tradurle in tensioni e proposte di cambiamento
concreto; in diversi indirizzi e scelte politiche anche in termini di
investimento. Dovrebbero tradursi in concreti cambiamenti delle
condizioni carcerarie, di opportunità diverse di scontare la pena
assumendosi attraverso specifiche forme la responsabilità di
costruirsi una diversa esistenza. Dovrebbero crearsi condizioni di
coinvolgimento e responsabilizzazione sociale e di sensibilizzazione
culturale della cittadinanza che “aprano” ad un'idea diversa
della sicurezza, del proprio ambiente sociale e storico. Favorendo
un'idea di riappropriazione degli spazi di approfondimento culturale
e civile. Dovrebbero, in maniera centrale, essere favoriti spazi di
opportunità alle vittime di essere riconosciute nelle loro
sofferenze e nelle conseguenze di queste, favorendo percorsi di
riappropriazione della propria dignità. Tutte le iniziative che
vadano in queste direzioni dovrebbero essere fortemente sostenute sia
policamente ed economicamente, sia da un'approfondimento culturale
riguardo al tema della giustizia che ne rimarchi la centralità e la
complessità.
Dovremmo imparare ed impegnarci
ad immaginare diversamente e non in un solo e unico modo che non
lascia nessuna speranza e possibilità a chi potrebbe voler cambiare.
Facendo così, faremo del bene non solo a loro ma anche a noi stessi,
occupandoci così del nostro spessore morale e riappropiandoci della
capacità di pensiero e di coinvolgimento e della speranza che ne
deriva.
Dovremmo impegnarci a tradurle
in atti di coraggio e in capacità di immaginare o iniziare a
percorrere strade diverse nel concepire la “questione giustizia”.
Questione che, a mio avviso, tocca primariamente la condizione delle
nostre relazioni sociali e della solitudine che tante volte le
caratterizza. Ove ogni cosa rischia di innescare meccanismi e
cortocircuiti di giustizia sommaria e di rifiuto, in una società che
rischia di trasformare ogni difficoltà, ogni cambiamento e ogni
presenza Altra in una minaccia o in una ingiustizia subita.
Per ritornare a pensare e ad
assaporare la speranza dell'impegno e non solo a consumare facili
messaggi del rifiuto, della chiusura, della diffidenza e della
vendetta.
Luca Marton
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