Filosofia di vita

«Siamo belli perché siamo pieni di difetti, non perché siamo onnipotenti, ma perché siamo fragili, perché ci tremano le gambe, perché siamo goffi, perché abbiamo paura, perché abbiamo bisogno di amore, per questo siamo belli!»

Nichi Vendola

giovedì 4 luglio 2013

Cittadinanza senza giustizia



Quello della giustizia è un tema ampio, spesso al centro del dibattito politico nazionale, ma di non facile presa. Uno degli aspetti problematici che lo caratterizza è certamente quello della situazione carceraria nel suo complesso e delle possibilità, offerte o meno, a chi “ha sbagliato”, di intraprendere processi di cambiamento e di riconciliazione sociale. Per non parlare poi dei tempi della carcerazione preventiva. Come possiamo dirci e sentirci, noi tutti, civili, nel mentre alcune persone sono in carcere, magari da diverso tempo, ancora in attesa di giudizio, ancora in attesa che si avvii l'iter giudicante. Al di là della loro colpevolezza o innocenza, il processo è un diritto.
Un diritto nella sua rapidità, nella sua accuratezza e nei suoi approfondimenti. È un diritto anche per le vittime, per chi ha subito dei torti. Il diritto ad essere riconosciuti anche nelle proprie sofferenze.

Mi preme sviluppare alcune considerazioni che, partendo da queste questioni di fondo, ne amplifichino le riflessioni andando al di là dei consueti limiti argomentativi che solitamente ci vengono “offerti” riguardo al tema.

La “giustizia” presenta certamente dei problemi di natura organizzativa, di struttura, di formazione, di inadeguatezze normative. Presenta problemi di rapidità e di accuratezza.
Ma in quale ambientazione avviene tutto questo?
Una ambientazione nella quale da anni è forte, per essere eufemistici, l'impressione che si volessero fare delle leggi ad-personam, magari attaccando la magistratura; accusandola, genericamente ma pesantemente, di assumere, in qualche modo, un ruolo politico; per converso, cercando di indirizzare eventuali riforme incanalandone in un'ottica che, al contrario, sembra essere finalizzata a destituirne la autonomia e a ricondurla sotto il controllo o l'indirizzo politico.
Una ambientazione, quindi, nella quale è stato forte il messaggio che ci si volesse difendere al di fuori dei processi, magari attraverso l'uso del proprio potere politico o di quello mediatico.
Al di là dei giudizi di innocenza o colpevolezza che non spetta a noi dare!

Nel contesto di un presunto garantismo, contemporaneamente venivano sviluppate dinamiche del sospetto, del giudizio preventivo e sommario che magari si traducevano in azioni legislative; basti pensare alle normative riguardanti il reato di clandestinità o a quelle azioni anche amministrativo-locali che producono discriminazioni della persona basandosi esclusivamente su condizioni esistenziali.
Insomma, anche qui al di fuori di qualsiasi forma di dinamiche della partecipazione e di condivisione della propria situazione. Una costante tendenza ad eludere, a travalicare, ma soprattutto a trasformare gli attuali “argini costituzionali”. Da parte di chi, dichiarandosi perseguitato, ha esercitato anche su queste basi, un consistente potere politico e mediatico. E, per converso, in altri ambiti e contesti, nello sviluppo di una concezione di giustizia sommaria che esprime una cultura per cui preventivamente il diverso, lo straniero, l'irregolare, quello che non ha stabilità, è da guardare con sospetto, attraverso un giudizio già dato, già determinato che “trasforma” un essere umano in una persona che, non si sa come, con la semplice presenza territoriale, in qualche modo, lede beni o persone o interessi della Repubblica. Un ledere per l'appunto talmente indefinito da assumere fisionomie culturali molto forti.

Torniamo alla situazione carceraria e alla considerazione che spetta alle vittime di reati, di abusi.
Forse dovremmo immaginare una giustizia più capace di non separare irrimediabilmente le varie figure.
Capace di studiare e prevedere interventi riparativi capaci di azioni che vadano oltre la semplice carcerazione; che dovrebbero cercare di “coltivare” il desiderio di riassumere una valenza di rispetto etico nella società; avendo per questo ben presente e ben nel cuore la sofferenza inferta ed anche subita.
Per questo, a mio avviso, la dimensione della giustizia non deve semplicemente riassumersi e chiudersi in un'aula di tribunale, per quanto questo, ovviamente, ne sia spesso un passaggio essenziale ed inevitabile. Dovrebbe farsi spazio ed essere presente, al contrario, nel nostro intimo di cittadini, come questione propria e di civiltà. Di rispetto delle diverse sensibilità in gioco, delle speranze di riconoscimento e di riabilitazione e riparazione ed anche di potersi impegnare per poter essere diversi che possono crescere ed essere presenti in tante persone. Barlumi di speranza che non possiamo soffocare attraverso ambientazioni di vita carceraria inaccettabili se non bestiali e oltre ogni forma di sopportazione; non possiamo soffocare barlumi di speranza attraverso politiche dell'abbandono a sé stessi o a culture che favoriscono la diffidenza e l'esclusione piuttosto che l'impegno civile e la voglia di contribuire responsabilmente a una idea diversa di società.
Non escludendo per questo il tema essenziale della sicurezza personale o le questioni che i flussi migratori ci pongono. Nessuno nasconde che la sicurezza di ogni cittadino sia un diritto e che i flussi migratori vadano affrontati con responsabilità anche per le difficoltà che inevitabilmente ne possono nascere. Si tratta di scegliere come affrontare tali questioni; cercando di coltivare e far permanere le nostre azioni e le nostre intenzioni nell'alveo del rispetto umano, dei diritti, dell'accoglienza e dell'impegno in una società solidale e che, nella solidarietà e nella responsabilità, che tanto caratterizza lo sfondo complessivo della nostra costituzione, si identifica. L'assetto complessivo della nostra costituzione in realtà trasmette l'idea di un potere giudiziario separato ed autonomo da altri poteri. Immaginarlo diversamente intacca inevitabilmente quell'idea dei diritti delle diversità e delle libertà che una costituzione costantemente dimenticata e disattesa emana in ogni sua parte.

Un'idea diversa di sicurezza, quindi.
La sicurezza che è data dal “sentirsi parte” e dall'impegno e dall'attenzione che deve crescere in ognuno di noi per il “bene comune” rappresentato dalla dignità di chi ci sta vicino e dalla dignità e nobiltà dei nostri pensieri più intimi.

Tutte queste riflessioni dovremmo riuscire a tradurle in tensioni e proposte di cambiamento concreto; in diversi indirizzi e scelte politiche anche in termini di investimento. Dovrebbero tradursi in concreti cambiamenti delle condizioni carcerarie, di opportunità diverse di scontare la pena assumendosi attraverso specifiche forme la responsabilità di costruirsi una diversa esistenza. Dovrebbero crearsi condizioni di coinvolgimento e responsabilizzazione sociale e di sensibilizzazione culturale della cittadinanza che “aprano” ad un'idea diversa della sicurezza, del proprio ambiente sociale e storico. Favorendo un'idea di riappropriazione degli spazi di approfondimento culturale e civile. Dovrebbero, in maniera centrale, essere favoriti spazi di opportunità alle vittime di essere riconosciute nelle loro sofferenze e nelle conseguenze di queste, favorendo percorsi di riappropriazione della propria dignità. Tutte le iniziative che vadano in queste direzioni dovrebbero essere fortemente sostenute sia policamente ed economicamente, sia da un'approfondimento culturale riguardo al tema della giustizia che ne rimarchi la centralità e la complessità.

Dovremmo imparare ed impegnarci ad immaginare diversamente e non in un solo e unico modo che non lascia nessuna speranza e possibilità a chi potrebbe voler cambiare. Facendo così, faremo del bene non solo a loro ma anche a noi stessi, occupandoci così del nostro spessore morale e riappropiandoci della capacità di pensiero e di coinvolgimento e della speranza che ne deriva.
Dovremmo impegnarci a tradurle in atti di coraggio e in capacità di immaginare o iniziare a percorrere strade diverse nel concepire la “questione giustizia”. Questione che, a mio avviso, tocca primariamente la condizione delle nostre relazioni sociali e della solitudine che tante volte le caratterizza. Ove ogni cosa rischia di innescare meccanismi e cortocircuiti di giustizia sommaria e di rifiuto, in una società che rischia di trasformare ogni difficoltà, ogni cambiamento e ogni presenza Altra in una minaccia o in una ingiustizia subita.

Per ritornare a pensare e ad assaporare la speranza dell'impegno e non solo a consumare facili messaggi del rifiuto, della chiusura, della diffidenza e della vendetta.

Luca Marton



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